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Bastava semplicemente chiudere gli occhi, e immediatamente avevo a disposizione, in esclusiva, uno schermo dove riprodurre ricordi e fantasie, dettate dal flusso della musica. Altre volte, invece, giocavo a perdermi nei dettagli degli oggetti che mi circondavano: le assi in legno di un palco, la luce intensa di una lampadina. In quei momenti, gli altri non esistevano: le uniche cose che avevano un senso erano la mia voce, il mio respiro, le varie scariche di dolore e adrenalina che dal centro del mio stomaco deflagravano dentro ai bulbi oculari. La quantità di gente presente di fronte a me non ha mai rivestito nessuna importanza; contava il tipo di atmosfera che si veniva a creare e, egoisticamente, le emozioni che io in primis riuscivo a provare e forse, chissà, a trasmettere. Non lo consideravo uno di quelli spettacoli in cui c’è una netta divisione tra artista e spettatore, ma più una sorta di rito collettivo in cui ciascuno mette in compartecipazione con gli altri le proprie energie. E’ abbastanza normale tentare di migliorare, come è normale essere soddisfatti se si riesce a coinvolgere un numero sempre maggiore di persone, ma sono tutt’ora convinto che un singolo individuo che assiste interessato alla tua proposta sia degno della stessa considerazione che si concede, forse più facilmente, ad un gregge delirante di fans.
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Come i vari tasselli compongono un mosaico, così i componenti delle varie band danno vita ad una scena, ad un movimento, accomunati da interessi in comune e dal rispetto reciproco che frequentemente si trasforma in affetto. Per me si trattava di una novità a dir poco meravigliosa: ci si aiutava a vicenda, anche senza conoscersi a fondo; una disponibilità disinteressata che prima di allora ritenevo impossibile. Capitava che qualcuno ti prestasse la sua strumentazione in cambio di un semplice grazie, o che qualcun altro mettesse a disposizione la propria macchina per trasportare pesanti ed ingombranti amplificatori in giro per la regione. Le generazioni più vecchie sono sempre irrimediabilmente troppo critiche nei confronti delle nuove, ma è un triste dato di fatto che certi gesti risultino definitivamente estinti: pratiche obsolete, buone solo per le chiacchiere dei nostalgici. – Prova a spiegare a qualche ragazzo più giovane di te di dieci anni cosa significhi scambiare il tuo disco con quello di un amico: secondo me non lo capiranno mai. E’ quanto ho detto ad A, mentre lo abbracciavo, prima di ricevere una copia di ‘Finisterrae‘: quel pezzo di plastica è una delle più belle conferme sul fatto che ciò in cui ho creduto non è stata soltanto un’illusione collettiva, ma una pagina bella quanto reale.
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Pensavo si trattasse di uno scherzo, uno dei tanti, l’ennesimo, a cui ci aveva abituato. Sul viso un’espressione quasi estasiata, gli occhi spalancati a fissare chissà cosa nel muro alla nostra destra. Quando cadde pesantemente in ginocchio, ero convinto stesse imitando gli atteggiamenti di chi assiste all’apparizione di qualche entità sovrannaturale: dalla bocca gli usciva un suono basso, intermittente, poi si accasciò vicino a me, facendo cadere pesantemente il microfono in terra, in preda alle convulsioni. L’aria della piccola stanza in cui provavamo divenne di colpo gelata. Ci mise diversi minuti per riprendersi del tutto; il suo spavento si sommava al nostro, marchiando a fuoco quegli attimi. Da quel giorno, ho incominciato a riflettere sul ruolo del caso: siamo nel bel mezzo di una guerra, un cecchino, dal suo nascondiglio, prende la mira, spara ma ti manca per un soffio, colpendo qualcun altro. Si è trattato di un errore? Perchè non me? Perchè non me?
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Tensione e agitazione furono due clienti difficili da tenere a bada. Entrai, per pura coincidenza, in una stanza della chat di Tiscali riservata, così pareva, ai neurologi. Trovai anche qualcuno che mi aiutò a capire meglio cosa fosse successo, facendomi delle domande dettagliatissime sulla dinamica dell’accaduto. Usò parole garbate, appropriate; cercò di infondermi un po’ di coraggio, ma alcuni aspetti non lo convincevano del tutto, e non lo nascose. Ci sentimmo in seguito, mi aveva chiesto di aggiornarlo sugli esiti degli accertamenti, e cosi feci: non so minimamente con chi ho avuto a che fare, ma si sforzò di regalarmi un briciolo di speranza, paragonandola ad un fuoco acceso dentro ad un camino che soprattutto in questi casi siamo chiamati a mantenere vivo.
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Il problema era molto più grave di quanto si temesse, fu Mauro a parlarmene, trattenendo a stento il terrore: ho 22 anni, non sono finito, mi disse parafrasando un pezzo dei Sottopressione.
Ci sono tantissime cose che a scuola solitamente nessuno ti insegna e che devi sforzarti di apprendere seguendo altre strade: una di queste è il modo in cui ci si comporta quando il tuo migliore amico ha una pallina di merda conficcata nella polpa del cervello.
Cercammo di sdrammatizzare, andando a farci un giro in un grosso centro commerciale: passammo la serata a misurarci giacche e giubbotti giganteschi, le risate non furono tantissime, ma le immagini che apparivano sugli specchi ci strapparono, di tanto in tanto, qualche sorriso stentato.
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Decise di continuare ad esibirsi dal vivo e, nel limite del possibile, con le prove, nonostante lo sforzo gli procurasse, puntualmente, delle crisi che con il passare dei giorni risultavano sempre più violente. L’amore per la musica: era questo che lo spingeva, ne sono sicuro, ad esporsi in maniera così plateale nel momento di maggior fragilità, come una preda indifesa. Si recò a Verona, da uno dei massimi specialisti in quel campo. Arrivammo in città la sera prima dell’intervento, senza dirgli nulla: io lo conoscevo tutto sommato da pochi anni, con S. invece erano amici sin dall’adolescenza, ma si trattava di un gesto che mi sentivo assolutamente in dovere di fare, il minimo. Lo chiamammo da un telefono pubblico, poiché l’orario delle visite pomeridiane era ormai già passato, ma non riuscivamo a convincerlo del fatto che fossimo davvero a pochi chilometri da lui. Fermammo un passante, un giovane ragazzo decisamente disponibile per gli standard del luogo, e gli passammo la cornetta. – Un nostro amico è ricoverato all’ospedale di Borgo Trento, fagli capire che siamo in città. L’accento, inconfondibile, fu una prova sufficiente: non potevamo vederlo, ma Mauro ci confessò, con un pizzico di imbarazzo, che dai suoi occhi stava incominciando ad uscire qualche lacrima.
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La riabilitazione fu difficile, ma Mauro si riprese tutto sommato abbastanza in fretta. Nonostante non fosse al massimo della forma, trascinato dalla sua solita ostinazione, salì sul palco del Meeting di Ruinas. Suonammo per primi, alle 18 di un pomeriggio foderato insopportabilmente da un doppio strato di afa soffocante e appiccicosa: non erano sicuramente le condizioni ottimali per lui, ma fortunatamente andò tutto per il verso giusto. Si trattò, in sostanza, del primo live della sua nuova vita, e la cicatrice che brillava sulla testa rasata a pelle raccontava la storia di un guerriero ritornato vittorioso da una delle battaglie più dure di sempre. Il destino spesso si rivela un romanziere cinico e beffardo: nasconde i suoi significati più profondi tra lo scorrere impetuoso degli eventi, per poi farli affiorare, all’improvviso, violentemente. – Bisogna avere le spalle larghe, e mantenere la testa ben alta quando si affrontano certe prove – mi rispose Cristian, dopo essersi sincerato sulle condizioni di salute di Mauro, pochi minuti dopo la fine della nostra esibizione. Per la prima volta ci rivolgevamo davvero la parola, al centro di una piazza che con il tempo sarebbe diventata il teatro per innumerevoli altre storie: nessuno dei due poteva anche solo immaginare cosa sarebbe accaduto in seguito.